Se un servizio è gratis, il prodotto (in vendita) sei tu.
E’ una massima piuttosto sgradevole da leggere ma che, in realtà, è il motore della stragrande maggioranza del business online dei tempi moderni.
In un modo o nell’altro per usufruire di servizi gratuiti complessi ed impegnativi c’è bisogno di comunicare dati personali e di accettarne la diffusione e questo, onde evitare allarmismi, per la maggiore non significa comunicare dati confidenziali.
Detto ciò, anche Spotify ha candidamente annunciato di voler adottare questo modello di business: a partire da oggi il colosso svedese potrà vendere ai propri inserzionisti anche i dati demografici degli utenti di Spotify Free, questo per favorire l’offerta di annunci più pertinenti e meglio corrispondenti alle caratteristiche dell’utente.
Tra i dati degli utenti non-Premium che Spotify potrà comunicare figurano l’età, il sesso ed i generi musicali più ascoltati, per la precisione:
- contenuto delle playlist;
- generi musicali più ascoltati;
- sesso;
- età;
- posizione geografica;
- lingua;
- profilazione tramite associazione con partner di terze parti (interessi, stile di vita, abitudini sugli acquisti).
Trattandosi di oltre 59 milioni di utenti sparsi per il mondo, questa iniziativa permetterà sia a Spotify che agli inserzionisti di rendere ancor più remunerativi gli account Free, affiancando alla pubblicità offerta anche la vendita di big data.
Una decisione, quella di Spotify, che può far storcere il naso a molti e che non riguarderà gli utenti Premium. Dura lex sed lex, direbbe qualcuno!